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“Dottor Guglielminetti, in base ai dati ed agli studi raccolti in questi anni, quali sono i paesi più a rischio, in Europa, di radicalizzazione, sia extra che in carcere, ed esistono delle differenze con l’Italia?”

A livello europeo, le percentuali di rischio radicalizzazione non variano di molto tra la presenza o meno dell’individuo in carcere.  Le motivazioni macro che possono attecchire una persona fuori dal carcere derivano essenzialmente dalla politica estera di quel determinato paese e del suo sviluppo storico successivo.

Non bisogna pensare esclusivamente al conflitto siro-iracheno, ma andare a vedere il ruolo che il paese ha avuto durante il periodo del colonialismo o la gestione della multiculturalità nella nazione senza dimenticare la conduzione di politiche migratorie aggressive o meno. L’Italia, sul piano internazionale, ha un profilo molto più basso rispetto a quello di  Francia e Gran Bretagna.

Mentre per quanto riguarda la radicalizzazione in prigione i dati variano per ogni singola nazione. Nei paesi nordici c’è un livello molto più elevato delle attività di recupero, i cosiddetti programmi di de-radicalizzazione o di rieducazione che vanno ad abbassare drasticamente la percentuale di casi.

Condizione differente, invece, in Francia e in Belgio dove vige il concetto di detenzione punitiva più che di recupero sociale e umano.

Da questo punto di vista in Europa, la Francia è la nazione con il più elevato rischio di radicalizzazione dato che somma questioni di politica internazionale e coordinamento tardivo nelle politiche di de-radicalizzazione.

I grandi interventi in questo campo sono partiti esclusivamente dopo l’attentato al Bataclan e non al giornale Charlie Hebdo, come invece ci si aspetterebbe.

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